Il cinema si misura da sempre con la dimensione spirituale dell’uomo, attraverso immagini e luce. Attraversiamo allora le fredde luci del Nord per cogliere il bagliore di una presenza/assenza che evoca mancanza, ricerca, desiderio. Seguiamo le voci di Tarkovski, Bergman, Zvyagintsev. Martedì 18 novembre alle 20.30 ROBERTO CIMATTI e MARCO DALMONTE introdurranno la visione del film Luci d’inverno. Modera DANTE ALBONETTI.
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LUCI DEL NORD
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Recensione: Andrej Rublev è forse il capolavoro di Andrej Tarkovskij. Scritto nel 1962, girato con grandi difficoltà produttive e burocratiche tra il 1965 e il 1966, questa seconda opera del regista russo è uno dei più potenti atti di dissenso artistico e morale nella storia dell’Unione Sovietica, carico di riferimenti allegorici alla realtà contemporanea e alla biografia del regista. Lontano da intenti di realismo storico, Tarkovskij realizza un’opera di intensità poetica senza precedenti, lasciando lo sviluppo del messaggio dell’artista alla percezione soggettiva dello spettatore, che è quasi invitato a fare il suo stesso cammino. Affresco di dimensioni e profondità eccezionali, osteggiato per anni dalla censura sovietica, Andrej Rublev è anche uno dei film più narrativi e dunque accessibili di Tarkovskij, nonostante richieda una dose massiccia di pazienza e forse più di una visione.
La fotografia sfrutta in modo straordinario le sfumature del grigio per dare corpo alle simbologie del regista (prima fra tutte, l’acqua che permea ogni cosa e che scorre come la vita), imponendo al film il tono di stupefatta meditazione dello sguardo del protagonista. Sullo sfondo di una Russia lacerata da feroci guerre intestine si staglia solenne la figura di Rublev, che concepì l’arte come strumento di elevazione spirituale e la fede come corollario imprescindibile per ottenere il massimo dalla propria ispirazione artistica. Per Rublev, infatti, la creazione artistica è impossibile senza la presenza del sacro, senza qualcosa che rimandi all’idea di bellezza assoluta. Le tappe della sua vita sono narrate da Tarkovskij in tutta la loro complessa evoluzione, così come eccellente è la resa iconografica del clima medievale infestato dalle incursioni tartariche. Una pulizia delle immagini che immobilizza lo sguardo, come se si stesse ammirando un quadro, e che evoca in tutta la sua desolante miseria la progressiva desacralizzazione di una nazione. Indimenticabile l’epilogo a colori sulle opere del pittore, in contrasto col bellissimo bianco e nero del resto del film, che testimonia il limite e la bidimensionalità dell’uomo tormentato nella carne e nello spirito.
Uno dei finali più commoventi della storia del cinema, dove il Dio della Trinità, avvolto in un emblematico silenzio, sembra osservare l’occhio della macchina da presa che lo indaga: se la Storia umana è grigia e destinata a sparire con tutto il suo carico di dolore e di crudeltà, l’arte nei suoi colori e nella sua quiete è destinata a restare, in simbiosi con il grande afflato della natura. Ma straordinari sono anche gli episodi della fusione della campana da parte di un ragazzo senza esperienza, dell’assedio e della strage compiuti dai Tartari, della festa pagana in cui una donna nuda cerca di corrompere il monaco Rublev, nonché la Via Crucis sotto la neve immaginata e raccontata dall’artista. Film monumentale e solenne, di spiritualità e lirismo inarrivabili: una parabola di indescrivibile bellezza sul senso dell’arte che vince sulla politica sanguinaria degli uomini. Un caposaldo del cinema mondiale.
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Recensione: Luci d’inverno è il secondo film della trilogia del silenzio, tra Come in uno specchio e Il silenzio; il problema della fede, del bisogno di avvertire la presenza di un Dio, viene qui presentato attraverso la crisi spirituale di chi, per il proprio ruolo, dovrebbe invece aiutare gli altri a trovare la retta via. Tomas Ericsson, non un alter ego del padre di Bergman, ma sicuramente una proiezione dei suoi dubbi sulla figura paterna, percorre il proprio travaglio spirituale nel breve giro d’una giornata: dal momento in cui la sua fede si scopre vuota alla (presunta) via d’uscita, la sua sofferenza morale è accompagnata da un costante malessere fisico, ed i tentativi di Marta, innamorata di lui, di lenirne il dolore non fanno altro che acuirlo. Ma quando, alla fine, inizia la messa, il suo volto sembra disteso, sereno: quale che sia, ha trovato una risposta.
L’itinerario interiore del pastore si svolge attraverso continui confronti con i personaggi che gli ruotano attorno: con loro, come con Dio, v’è una comunicazione inutile (Nattvardsgästerna, il titolo, vuol dire ‘i comunicandi’, giocando tra comunione e comunicazione), nessuno è in grado di ascoltare, di capire il prossimo, meno che mai di aiutarlo. Con la morte della moglie Tomas ha perso l’unico motivo per cui viveva, e come adesso non riesce a trovarlo in Dio, così non riesce a darlo agli altri; ai dubbi dei fedeli aggiunge i suoi, il suo Dio ‘privato’, che evidentemente vive in un mondo diverso dalla realtà non risponde né a lui né per lui: “Dio, Dio mio, perché mi hai abbandonato?”. Non è l’esistenza o meno d’un Dio che lo tormenta, ma il suo silenzio.
La morte di Jonas rischia di tramutare in certezze i suoi dubbi: l’inutilità del vivere umano, la sua incapacità di aiutare gli altri. L’illuminazione giunge inaspettata, mentre ascolta controvoglia le parole del sagrestano, le ennesime d’una giornata di auto-distruzione; Gesù, uomo, ha sofferto le sue stesse pene quando, abbandonato anche dagli apostoli, morente, si ribella al silenzio di Dio: le sue parole sono quelle di Tomas, è uguale il dubbio, identica la passione.
Tra la prima e l’ultima sequenza qualcosa nel pastore è cambiato, la sua stanca fede ereditata non c’è più: se al suo posto ve ne sia una rinnovata, finalmente consapevole, o l’altrettanto appagante coscienza del nulla, non viene detto. Ogni interpretazione è lasciata allo spettatore, Bergman si guarda bene dal prendere una posizione; il dubbio esiste, a disposizione di tutti: ognuno cerchi la propria risposta.
L’equivalenza tra le due possibilità è accentuata dalla fotografia, di Sven Nykvist: il cielo è perennemente coperto da una coltre compatta di nuvole e nebbia, eppure i volti dei personaggi sono sempre illuminati; né il pallido sole nordico, né il silenzio divino sembrerebbero in grado di superare l’ostacolo di nuvole e disincanto. Se Bergman si sbilancia un momento e lascia intravedere il proprio punto di vista, è durante la prima messa: “lodiamo il signore”, dice Tomas. Subito, l’inquadratura cade sul vino e le ostie, quindi sul crocifisso: dei simboli materiali d’un concetto inesplicabile, un simulacro incapace di comunicare. È questo, Dio.
cinemadelsilenzio.it
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Recensione: Nord della Russia: la vita dei fratelli Andrey e Ivan è sconvolta dall’inatteso ritorno del padre, assente da casa da dodici anni. Col consenso della madre i ragazzi partiranno insieme al padre ritrovato per un viaggio in macchina con destinazione ignota. Palazzi diroccati, muri scrostati, paesaggi completamente vuoti, foreste secolari, spazi aperti sconfinati ed inquietanti. Il mare, l’acqua, ma anche il silenzio metafisico e il respiro immutabile della natura selvaggia. La macchina da presa si muove con lentezza, scruta, cerca, compie evoluzioni equilibrate e composte.
Ferma idealmente il visibile, tentando di cogliere ed esorcizzare il nulla che caratterizza l’esistenza di ogni essere umano. Ivan e Andrej affrontano il loro personale viaggio verso l’età adulta conoscendo un padre fantasma, un individuo duro e strano, già morto dentro prima dell’incidente che lo porterà via per sempre. La madre dei due bambini rimane sullo sfondo, incapace di dare un senso alla propria vita e abbandonando, di conseguenza, i propri figli al loro destino.
Primo lungometraggio di Andrey Zvyagintsev, “Il ritorno” è un viaggio simbolico, atemporale, nella condizione umana. Un ottimo debutto, quello del russo, che dimostra grande padronanza del mezzo cinematografico attraverso una messa in scena essenziale, rigorosa e potente. Zvyagintsev rivela di possedere un senso e una visione del cinema davvero notevoli, calando, come fa, l’intera vicenda in una Russia brumosa fuori dal tempo e dallo spazio. Una parabola che possiamo osservare da vicino, dalla prospettiva della nostra conoscienza. Non a caso la macchina compie un lento processo di allontanamento dai corpi, che nei primi minuti aveva quasi “aggredito”, e su cui indugiava, lento, in sospensione, in attesa.
Poi il regista passa alla contemplazione del paesaggio, all’ascolto dei suoni e dei rumori di una natura ancora incontaminata, nella sua bellezza e crudezza, sfiorando continuamente la possibilità di perdersi nella foresta che sorge ai margini della spiaggia, o nella confusione dei pensieri. La narrazione pian piano si scioglie e lascia il posto alla visione, con i personaggi che vengono gradualmente risucchiati in questo “viaggio senza ritorno”, diventando marginali, evanescenti.
Eppure, proprio questa “sensazione”, posiziona l’occhio dello spettatore nelle prospettive emotivamente contrapposte dei due fratelli. Il più grande, inebriato dalla sconosciuta presenza paterna, lo segue, l’osserva, lo asseconda; il più piccolo, invece, sceglie la via del contrasto, ma la fine è identica per entrambi e porta alla conoscenza, di sé, non di quell’uomo che vedranno sparire nelle acque del lago e attorno al quale resterà il mistero più fitto. Un film complesso e completo; più che a Tarkovskij siamo vicini ad Herzog e al suo romanticismo notturno e disperato.
Vincitore del Leone d’Oro e Leone del Futuro Opera Prima “Luigi de Laurentis” a Venezia 2003.
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